IL TRUST ALL’ITALIANA IN BILICO PERENNE TRA VIRTU’ E ABUSI

C’è chi lo fa per eludere i creditori, chi per illudere il fisco, chi per garantire il futuro delle prossime generazioni fino al 2124 (caso realmente in corso d’opera).
Ma nonostante una varietà di fini che va sempre più tipizzandosi – e in cui la legge sul “Dopo di noi” segna il punto più alto della sua breve storia tricolore – il trust nel nostro Paese continua a scontare il pregiudizio di un utilizzo troppo spesso “disinvolto”. Un pregiudizio non del tutto privo di basi, se è vero che in poco più di tre lustri i tribunali italiani si sono espressi più di 700 volte sul tema (quasi sempre per censurare), che negli ultimi anni più di 150 trust sono stati cancellati da azioni revocatorie (articolo 2901 del codice civile, utilizzato da creditori chiusi fuori dal forziere) e che la Cassazione è intervenuta in almeno 80 occasioni per rettificare il tiro sulla imponibilità fiscale, ma più spesso per condannare spregiudicati protagonisti o per sciogliere il vincolo di trust, appunto.
Perchè in fondo il trust nasce proprio per questo: sottrarre (parti del) patrimonio del disponente da vicissitudini future e incanalarlo verso scopi prefissati, sui quali nè lui nè altri potranno più intervenire e sulla cui attuazione vigilerà invece un guardiano.
I trust del Canale
Il problema è che nella legislazione italiana non esiste una definizione di trust nè, tantomeno, una regolamentazione conseguente. Dal 1989 (legge 364, che recepisce la Convenzione dell’Aja di 4 anni prima) la trasposizione del nostro ordinamento giuridico è cosa fatta, ma appunto di trasposizione si tratta. Così le fonti contrattuali sono rimaste fuori dai confini, con una netta preferenza dei trust di matrice inglese, più in particolare del Canale, meglio ancora se di Jersey. «La conseguenza – dice Maurizio Lupoi, considerato tra i massimi esperti dell’istituto e padre tra l’altro della legge sul “Dopo di noi” – è che nella totalità dei casi il disponente firma una cosa che non conosce nè può conoscere bene, poiché l’inglese giuridico è un po’ più complesso di quello di uso comune». Così, per esempio, il figlio appena maggiorenne può appropriarsi della casa segregata in trust, di cui è beneficiario, con largo anticipo sui tempi che papà e mamma avrebbero voluto. «Effetti collaterali – aggiunge Lupoi – sui quali professionisti e consulenti dovrebbero mettere in guardia. Ma evidentemente non sempre succede».
La via del Titano
Dove invece una legge c’è, pure recente (è del 2010) e tra l’altro in lingua madre, è nella Repubblica di San Marino. Non è un caso che i trend più recenti del trust tricolore segnino un netto picco di gradimento per il Titano, avviato a nuova vita dopo la repentina pulizia della piazza finanziaria dell’ex paradiso fiscale, oggi ormai largamente compliant con gli standard internazionale di trasparenza. Ad oggi i trust registrati nel piccolo Stato sono 123 – tutti di portata “significativa” – l’83% dei quali istituiti da non sanmarinesi. Tra l’altro il Titano si preoccupa di formare i trustee con un’abilitazione rilasciata dall’Università di San Marino – legata al circuito Uniforma di Genova. Da noi invece la formazione è rimessa a un’associazione privata (Il Trust in Italia, più di 50 professionisti accreditati, tra notai, avvocati e commercialisti) che fissa anche le regole di ingaggio – tra cui la sottoscrizione di una robusta polizza professionale. Quello dell’assicurazione è un tema piuttosto sentito in Italia, dove il mercato ha una peculiarità: si “trustizza” di tutto, con molta fantasia e , soprattutto, con frazionamenti anche molto piccoli del patrimonio.
Il trust “centenario”
Singolare il caso di una signora che, 12 anni fa, aveva pensato di garantire prospettive ad almeno quattro generazioni, segregando un (bel) patrimonio per 120 anni, beneficiaria appunto la catena di eredi. Da qualche tempo la disponente ci ha ripensato e vorrebbe tornare sui suoi passi. Il problema, che spesso sfugge a chi si imbarca in quest’avventura, è che il ripensamento non è ammesso. «A meno di attribuire la giurisdizione a un Paese diverso rispetto a quello la cui giurisdizione regola il trust – spiega Maurizio Lupoi – per esempio là dove alla corte sia concesso di intervenire sul trust, modificandone l’atto costitutivo». In assenza di un trust di diritto italiano (varie volte negli ultimi anni l’iter parlamentare si è arenato) e con una giurisprudenza che non si avventura per sentieri novativi – di un diritto che in fondo non le appartiene – la strada più breve per molti, oggi, appare proprio quella del Titano.

 

Fonte: IlSole24ore